Six Feet Under: La vita attraverso il melodramma seriale

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    Ripercorriamo una delle più belle serie andate in onda negli ultimi anni, toccante e struggente, una lezione di vita attraverso la storia di una famiglia che, ogni giorno, ha a che fare con la morte

    CITAZIONE
    Fa sempre un po’ male tornare sul luogo del delitto. Ci si scopre nudi e invulnerabili. Miseramente esposti alle emozioni. D’altronde raccontare freddamente lo sconquasso emotivo che la serie creata da Alan Ball è in grado di generare, in chi ha la pazienza e la generosità di amarla incondizionatamente, è impresa ardua quanto inutile. Sarà il tempo comunque a decretare l’importanza di Six Feet Under, serie di culto prodotta dalla HBO, sopravvissuta con orgoglio alle intemperie televisive grazie a uno stuolo di fan fedelissimi, oramai in lutto da più di due anni.

    Iniziata e conclusa con addosso lo status di serie di culto quindi. È forse questo il problema, perché Six Feet Under andrebbe invece passata nelle scuole, nei canali televisivi di massima frequentazione, dovrebbe arrivare a più gente possibile invece di essere stuprata da palinsesti televisivi ottusi, irrispettosi e mai coraggiosi. Altro che culto, andrebbe imposta. Anche se a noi piace un po’ tenercela stretta tutta per noi. Mutevolezza delle cose e dei sentimenti.



    Six Feet Under racconta la vita: i suoi cambiamenti, i suoi riti di passaggio, le sue gioie e le sue tristezze attraverso gli occhi della famiglia Fisher, proprietaria di un’impresa di pompe funebri. E lo fa con una durezza e una sincerità di cui perfino il cinema ha perso definitivamente le tracce. Iniziando e finendo con un abbandono. La vita in cinque stagioni attraverso le splendide facce dei fratelli Claire, David e Nate Fisher, dei lori genitori Nathaniel (la presenza fantasmatica della serie) e la straordinaria Ruth. Il socio Federico Diaz e sua moglie Vanessa, l’intenso Keith Charles e l’inafferabile Brenda Chenowith, suo fratello Billy, fino al commovente George Sibley, interprete delle ultime due stagioni.

    Se generalmente le serie tv, o almeno quelle di buona fattura, creano dei personaggi a cui rimaniamo legati, tanto da vederci qualcosa di noi o lontano da noi, Six Feet Under va molto più in profondità. Prende una famiglia e un gruppo di personaggi che ci ruotano intorno e ce ne affida il loro percorso, nel bene e nel male, abbattendo il filtro della finzione, evitando sempre e comunque banali schematismi e facili scorciatoie. Quello che ci chiede è di abbandonarci a questo flusso di vita, superando il ricatto di stare con questo o con quell’altro personaggio. È questa la ragione per cui non esistono personaggi totalmente positivi o totalmente negativi. Ognuno ha un percorso emozionale, generazionale e simbolico che la serie ci costringe a valutare nella sua estrema complessità.

    Non è quindi un istinto sadico quello che governa la quinta e ultima stagione della serie -indiscutibilmente la più bella e profonda, almeno a voler seguire questo filo interpretativo – nel suo insostenibile crescendo drammatico in cui ogni personaggio e ogni evento assume un valore e una pregnanza straordinaria. E neppure l’ansia di fornire nuovo carburante al verbo melodrammatico, quanto la necessità di concludere coerentemente un discorso che per forza di cose deve andare in quella direzione. È attraverso la continua privazione che i personaggi scoprono i valori delle cose e non si può chiudere il cerchio se non attraverso un abbandono definitivo, che fa davvero troppo male. Malissimo. E quando ci si sente del tutto annientati, partono quegli ultimi incredibili sei minuti in cui ci passano avanti delle vite che ci sono state sottratte quando ne abbiamo più bisogno. Ci si sente morti, ma anche un po’ più vivi e consapevoli. Sepolti a occhi sbarrati sei metri sotto. E così lontani dal paradiso.

    Fonte: Alphabet_City

    davvero stupendo qst articolo!!!

    Edited by Slide85 - 14/12/2008, 19:35
     
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0 replies since 8/3/2008, 17:08   89 views
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